(di Anna M. Ragno)
Disegno realizzato da Francesca L. della classe IID della Scuola Primaria "G.Rodari" di Vieste. |
La
leggenda di Cristalda e Pizzomunno, che il cantante siciliano Max
Gazzé ha
presentato al 68esimo
festival di Sanremo,
ha la sua origine negli scritti di Beltramelli, autore prolifico e di
grande successo della prima metà del Novecento,
che
nel
1907
scrisse
il resoconto del
suo viaggio
sul Gargano per l’Istituto
Italiano
di Arte
Grafiche
di Bergamo.
Il
Beltramelli descrisse
Vieste come “terra
di sciagure perseguitata dagli uomini e dagli elementi, fra tutte le
città del Gargano quella che più sofferse le scorrerie dei turchi e
la più danneggiata dai terremoti”.
All’autore
che descrisse la nostra amata Vieste
come una
cittadina
“ che dorme sperduta fra gli scogli”, quindi,
dobbiamo
non
solo l’appellativo di “Vieste
la sperduta”,
ma
la
prima
trasposizione scritta della leggenda del Pizzomunno(1907).
In
questa versione non
compaiono ancora
i nomi dei protagonisti.
Ma in seguito la leggenda avrà una nuova versione. Sarà Giuseppe D’Addetta1, il noto giornalista carpinese, a pubblicarla il 18 ottobre 1954 nel settimanale di ispirazione democristiana “La Tribuna di Foggia” (1954:A. 1, 18 ottobre, fasc. 5, Tip. L. Cappetta e F.).
1D'Addetta è stato tra gli intellettuali garganici più attenti alla valorizzazione del promontorio, e tra i più abili a raccontarne le millenarie radici. Nato a Carpino nel 1899, ha scritto molti libri sulla Montagna del Sole, ed è stato tra i primi ad intuirne il potenziale, battendosi tenacemente per superare i localismi e i campanilismi, e privilegiando la narrazione del Gargano come unicum.
D’Addetta fu molto attivo come scrittore e come giornalista. Fondatore del periodico Rinascita Garganica, ebbe il merito di rilanciare la pubblicazione de Il Gargano Nuovo.
La
novella è intitolata “Ogni cent’anni” e, come
detto, racconta la leggenda di Pizzomunno (che nel testo viene
chiamato con il nome più antico di Pizzimunno) e Vesta, che
l'autore usa al posto di Cristalda, probabilmente per sottolineare il
profondo legame che la storia ha con le radici di Vieste. Ne riporto
integralmente il testo:
Ogni cent’anni
di
Giuseppe D’Addetta
Era
buio sul mare, quella notte ormai lontana. Ed era tutto silenzio e
mistero.
Mormorava
solo l’acqua che la prora spartiva, e la grande vela arancione
della paranza qualche volta batteva sgonfia per il cessare della
brezza.
Tacevamo,
stretti seduti a prua, sognando la luna bianca nella notte nera,
mentre ascoltavamo i battiti dei cuori vicini che si sentono quando
intorno è quiete e nell’animo garrisce la giovinezza.
A
poppa, il marinaio di mezza età che governava la barca s’indovinava
dal chiarore che arrossava l’apice della pipa ad ogni boccata di
fumo. Neanche lui parlava; taceva con noi e con la notte.
La
mia compagna mi si strinse di più.
-
Hai paura?
-
No; ma vorrei scendere a riva, guardare da terra questo buio
misterioso che pesa sull’acqua, temerlo ancora di più e poi
provare più forte la sensazione di andare incontro all’ignoto
quando riprenderemo il mare.
La
riva era ciottolosa; un taglio quasi perpendicolare mostrava appena
nell'oscurità il candore della costa alta, da dove s’affacciavano
le chiome dei pini che s’intravedevano soltanto come schermi forati
dalla lucentezza delle stelle.
Camminammo
un po’; la ghiaia scricchiolava sotto i nostri passi, con uno
stridio che nella notte s’incupiva. Poi ad un tratto ci si parò
davanti come un enorme fantasma bianco, una roccia alta, conica, alla
cui base mormoravano le ondine in una carezza lieve che cessava e
riprendeva, schiumava appena nell’infrangersi ai piedi del
faraglione.
Lontano,
su Vieste, un chiarore rossastro interrompeva il buio che avvolgeva
terra e mare.
Tornammo.
Il
barcaiuolo ci attendeva sulla riva, con le mani congiunte sul dorso e
la pipa spenta fra le labbra Ed a lui chiedemmo cos'era quella roccia
alta che nella notte ci era apparsa come un enorme fantasma bianco,
immobile vedetta a guardia sul mare. Scorgemmo appena l’incresparsi
delle guance in un breve sorriso, mentre il marinaio tentennava la
testa dall’indietro in avanti quasi ad esternare un grave pensiero
che in quel momento gli serrava il cervello.
Poi
disse:- È una storia lunga e dolorosa e potrebbe anche sembrare una
favola se qualche vecchio pescatore non assicurasse che, quanto si
narra, è vero perché se ne è accertato personalmente. Andiamo a
sederci sulla barca e ve la racconterò.
L’acqua
ci sembrò più fredda quando abbordammo la paranza, coccolata dalle
piccole onde. La vela era ammainata; l’albero si sperdeva nel buio.
Dalla poppa cominciò a giungere a prua la voce cupa del barcaiuolo,
che nel silenzio assumeva alle volte tonalità strane, quasi uscisse
dal fondo del mare. E la voce strana diceva:
-
Qui siamo sul limite estremo del Promontorio, dove la terra
maggiormente s’insinua nel mare. Quel faraglione si chiama
Pizzimunno ed è davvero un fantasma come a voi è sembrato, anche se
di pietra.
La
piccola rada di Vieste - voi lo avete visto - è sbarrata da uno
scoglio lungo e basso, battuto ora dalle sciabolate luminose del
faro.
Vieste
è un'antica cittadina che - dicono - fu fondata da Noè su questa
piccola rada, dopo il diluvio universale. E non v’era ancora a
rimirarsi nel mare, al tempo in cui avvenne la storia che vi narro.
Al suo posto, poche capanne si sperdevano fra i pini.
In
una di quelle capanne, aggrappate al dorso del colle da dove le mura
nere dello sbrindellato castello guardano ora il mare, viveva la più
bella fanciulla di tutto il Gargano. Era più bella del sole quando
sorride all'aurora, della rosa quando schiude all'alba la sua prima
corolla. Dicono che si chiamasse Vesta e che di lei anche i fiori
fossero innamorati tanto grande era la sua bellezza. E quando Vesta
passava, si aprivano tutti per profumarle l’aria che respirava.
Vicino
alla riva, in un’altra piccola capanna che le onde bagnavano
durante l’alta marea e davanti alla quale s’arenava la barca nei
giorni di burrasca, abitava Pizzimunno, un pescatore dalle membra
perfette e vigorose, tutto il giorno in mare. E quando l’acqua era
trasparente, Pizzimunno scorgeva sul fondo visi bellissimi di donne,
mentre canti maliosi cominciavano a serpeggiare nell’aria. Poi,
come quei visi s’innalzavano fino al pelo delle onde, il canto
s’irrobustiva e la melodia s'avvicinava. E durava a lungo,
conturbante, mentre dal mare uscivano a mezzo busto bellissime
ragazze bionde e brune che sorridevano al pescatore tutt’intorno
alla sua barca. Di tanto in tanto cessava il canto e voci carezzevoli
invitavano Pizzimunno a scendere negli abissi del mare, dove
l’attendeva un regno fiabesco e tutto il loro amore. Sarebbe stato
il loro signore, le avrebbe prese tutte o soltanto quelle che
desiderava e quando le volesse. Felici anche le altre di poterlo
guardare soltanto, di una sua carezza, di una sua parola. E gli
avrebbero donato la loro stessa immortalità, con il loro amore
eterno.
Ma
Pizzimunno amava Vesta ed alle sirene rispondeva che la sua amante
era sempre la più bella e nessuna di loro reggeva al suo confronto.
E una carezza di Vesta valeva tutta l’eternità che esse volevano
donargli.
E
quando a sera ritornava nella rada, Vesta l’attendeva sulla
spiaggia per salire sulla sua barca ed andare insieme sullo scoglio
piatto che chiude la cala, soli con il loro amore a cui il mare
cantava la sua canzone senza fine.
Illividivano
le sirene quando, nelle notti di luna, scorgevano sullo scoglio gli
amanti. E nei giorni successivi, più dolci erano le loro voci ed i
loro canti, più promettenti i loro sguardi, più tentatori i loro
sorrisi nell’ansia di conquistare il bel pescatore. Il quale un
giorno disse loro:
-
No, sirene, io amo il mare, i vostri canti che ripetono le onde
quando voi non ci siete, tutto l’oro del sole fra il turchino che
circonda la mia solitudine. Ma amo di più Vesta che nel suo corpo
incatena il sole, che ha negli occhi il glauco delle onde, e tutte le
vostre bellezze nella sua. Siatemi sorelle nella sconfinata
solitudine marina ma amanti no perché solo Vesta io amo.
Allora
le sirene lo minacciarono. Ed egli rise perché non cosi, con le
minacce, sarebbe finito il suo amore per Vesta; né il suo cuore lo
avrebbero mai avuto loro. E Vesta lo avrebbe amato sempre, anche
fantasma, oltre la vita.
Le
sirene allora si consultarono. Non potevano sopportare che un misero
e mortale pescatore si ridesse di loro, ed una fanciulla terrena le
vincesse in amore; vincesse loro, le ammaliatrici a cui nessuno aveva
mai resistito. E dal consiglio di tanta gelosia, venne fuori una
sentenza terribilmente crudele che nell’eternità avrebbe fatto
soffrire i due amanti.
Tacque
per un momento il marinaio.
Nella
notte scura spirava appena un alito di vento. La barca era immota
sull’acqua; il mistero aveva ansie e palpiti sospesi.
-
Vesta, solo tu sei tutta la mia vita, sussurrò una notte sullo
scoglio Pizzimunno, a conclusione dell'ultimo racconto delle lusinghe
delle sirene e delle loro minacce.
-
Pizzimunno, ho paura. Sento che qualche cosa di molto grave pesa sul
nostro destino.
La
voce di Vesta era flebile, accorata.
La
luna guardava, alta nel cielo; la terra e il mare sorridevano al suo
argento senza calore. Sullo scoglio solitario si ripercuoteva il
fremito delle onde.
Ad
un tratto un canto dolce s’intese e pareva lontano.
Pizzimunno
rise credendo ad un altro tentativo delle sirene in presenza della
sua amante. Vesta si rifugiò nelle sue braccia; tremava.
S’avvicinava
sempre più il canto.
Non
da lontano ma dalle onde ora sgorgava e saliva su dal fondo, lento ma
sempre più vicino. E quando fu da presso, divenne più dolce ed
intenerì gli amanti che immobili ascoltavano, con gli occhi fissi
sul mare.
E
non si accorsero che delle sirene erano alle spalle di Vesta.
Ad
un tratto la fanciulla fu stretta da catene ed uno strappo forte la
fece cadere in acqua mentre il giovane, come pietrificato, guardava
il gorgo che brevemente ribollì sulla testa dell’amata. Poi si
riscosse e si tuffò quasi a raggiungere il fondo.
Sghignazzava
ora il canto allontanando e Pizzimunno lo seguiva a nuoto nella
speranza di raggiungere Vesta.
Poi
si sentì sfinito ed ogni movimento gli fu impossibile.
L’alba
che seguì vide sulla riva quella roccia alta e bianca che a voi è
sembrata un fantasma. Da quella notte Pizzimunno non è più apparso
nella rada.
Vesta
fu trascinata lontano, negli abissi marini. E i suoi occhi lucenti di
pianto, videro un regno fiabesco, antri splendenti che si
susseguivano all’infinito con volte frastagliate di madreperla, dei
quali un mare turchino e trasparente formava il pavimento. E da quel
pavimento le sirene uscivano a mezzo busto, bellissime nel volto e
con negli occhi un odio terrificante. E beffavano Vesta, la bella del
mondo, e la invitavano ad invocare il suo Pizzimunno perché venisse
a riprenderla.
Poi
Vesta sentì che i piedi le diventavano di ghiaccio e il ghiaccio
salì pian piano su fino al capo; ed al posto di quella fanciulla
bella come il sole, la più bella che mai abbia visto il Promontorio,
si formò una stele di corallo rosa intorno alla quale le sirene
sarabandarono.
Si
fermò ancora il marinaio nel suo dire.
La
mia compagna emise un profondo sospiro come a liberare il cuore da un
incubo; e con le mani strinse forte il mio braccio perché temeva le
sirene in quel buio che il racconto del barcaiuolo rendeva più
misterioso.
E
il marinaio riprese:
-
Nessuno sa con precisione dove sia il regno fiabesco delle sirene
negli abissi del mare. Tutti però dicono che si trova fra le Tremiti
e la costa garganica. E la stele di corallo rosa in cui Vesta è
trasformata, dal suo apice goccia sempre lacrime mentre una catena di
cento maglie la tiene assicurata ad una grande colonna che sorregge
la volta. Le lacrime cadono come perle fosforescenti sull’acqua
azzurra che circonda la stele rosa e si ammucchiano alla sua base
cerne a formare il piedistallo Ma se una sirena le tocca, si
liquefanno e tornano stille di acqua nell’acqua
Ed
anche la stele di corallo ridiventa Vesta e il faraglione ridiventa
Pizzimunno se una sirena li accarezza. E non vi è pianto più
accorato di quello dei due amanti quando riprendono spoglie umane.
Da
questo pianto le perfide sirene sono state impietosite ed hanno
deciso di far rivedere gli amanti ogni cento anni, su quello stesso
scoglio dove vissero l’ultima notte d'amore. Ma è pietà la loro o
una più grande perfidia se l’attesa di un secolo non è che un
tormento senza fine per le anime di quei corpi irrigiditi? Perché
neanche le anime possono ricongiungersi avendole, l’incantesimo,
per l’eternità legate alla materia.
Così
ogni cento anni Vesta e Pizzimunno si ritrovano sullo scoglio piatto
che chiude la rada ed è folle la loro gioia in quella notte che
trascorrono insieme
Ma
nessuno riesce a fuggire verso la terra dove le sirene non potrebbero
raggiungerli. La catena dalle cento maglie si tende e il mare
inghiotte di nuovo Vesta mentre Pizzimunno guarda ancora come
inebetito il gorgo che ribolle. Poi comincia a nuotare seguendo il
canto delle sirene e si rinnova l’incanto sulla riva che ci è
vicina; lì si riforma il faraglione, gigantesco fantasma di pietra
bianca.
E
che questo accada, lo hanno assicurato vecchi pescatori i quali
inutilmente in una notte hanno cercato il faraglione senza trovarlo.
Eppure conoscono la riva palmo a palmo.
Ma
nessuno riesce a ricordare la data in cui l'incantesimo di Pizzimunno
s’interrompe. Si sa solo che la notte è buia, con poche stelle,
nella calma più assoluta del mare.
-
Potrebbe anche essere questa notte, disse la mia compagna.
-
Sì potrebbe essere, rispose il pescatore
E
con un remo spinse sul fondo per disincagliare la paranza dalla
sabbia fine in cui la chiglia si era arenata.
Cristalda e Pizzomunno. Regia, animazione, grafica e musica di Lino Albanese.
Voce narrante di Marco Pilone.
Video ufficiale di Max Gazzè.
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