E' arrivata la regina Taitù.

Spesso a Vieste si sente dire “E’ arrivata la Regina Taitù”, ma forse pochi immaginano che questa esclamazione è legata al passato coloniale del nostro Paese e ad un personaggio storico realmente esistito. Stiamo parlando di Taitù Batùl (che significa Sole o Luce d’ Etiopia), più nota in Italia come Regina Taitù, nata a Walatta Mikael il 1848 circa e morta ad Addis Abeba l'11 febbraio 1918, imperatrice d'Etiopia dal 1889 al 1913, in quanto moglie del negus Menelik II.
La connotazione negativa del personaggio era stata creata, alla fine dell’800, dai resoconti dei giornalisti italiani in Etiopia, che la descrivevano come una donna superba e dispotica, permalosa e arrogante, che non si faceva scrupolo di contraddire in pubblico il consorte Menelik II, Imperatore d’Etiopia. Nacquero così vari modi di dire, come “Quella crede di essere la regina Taitù”, per definire donne visibilmente vanitose e superbe.
Taitù era discendente di una delle famiglie più aristocratiche d’Etiopia, imparentata con la dinastia Salomonide, la casa reale più antica del mondo, che discende da Menelik I, figlio di Re Salomone (nato nel 1011 a.C.) e della Regina di Saba. Ella sposò Menelik II dopo 4 matrimoni falliti e, grazie al matrimonio con il futuro Imperatore d’Etiopia, ebbe un notevole potere politico, guidando a corte la fazione conservatrice, che si opponeva ai progressisti, che invece volevano accettare i modelli economici e culturali imposti dell’Occidente. Quando Menelik II venne incoronato Imperatore d’Etiopia nel 1889, anche Taitù venne incoronata Imperatrice.

L'incoronazione di Menelik II e Taitù.


Profondamente sospettosa delle intenzioni europee nei confronti dell'Etiopia, fu un'attrice fondamentale nel conflitto intorno al trattato di Uccialli con l'Italia, nel quale la versione italiana faceva dell'Etiopia un protettorato italiano, mentre la versione etiope, scritta in lingua amarica, non prevedeva alcun protettorato: il negus dava soltanto lafacoltà di essere rappresentato dal governo di Roma presso le altre potenze. L'Imperatrice mantenne una linea dura nei confronti degli Italiani, fino a quando l'Italia invase l'Impero etiope dalle sue colonie eritree.
Cosicché Taitù, l’Imperatrice che affiancava l’Imperatore anche in battaglia, guidando l’esercito imperiale a cavallo, marciò verso nord, comandando un reparto di cannonieri nella storica battaglia di Adua, che si concluse con una umiliante sconfitta per l'Italia il 1º marzo 1896. Dopo la battaglia di Adua, si diffuse la leggenda che la regina Taitù si aggirasse nel campo di battaglia per castrare i soldati italiani, morti o feriti che fossero.
Quando poi, intorno al 1906, la salute di Menelik cominciò a declinare, Taitù iniziò a prendere decisioni per conto del marito. Nel 1910, per una congiura di palazzo fu costretta a lasciare il potere e, avendo ricevuto disposizione di limitarsi alla cura del marito malato, Taitù scomparve dalla scena politica.
Taitù e Menelik non ebbero figli. Quando Menelik morì nel 1913, Taitù fu esiliata nel vecchio palazzo di Entoto, accanto alla chiesa di Entoto Mariam, che lei stessa aveva fondato anni prima, e dove suo marito era stato incoronato Imperatore. Qui è ancora sepolta accanto a suo marito e alla figliastra Imperatrice Zauditù, l’Imperatrice triste, che fu l’ultima imperatrice regnante nel mondo.

Dedicato a Pina e a Costanzo e a tutti gli amici e i colleghi della Scuola Italiana.



I carbonai e i taglialegna della Foresta Umbra.

(di Anna M. Ragno)
In passato il carbone era uno dei pochi combustibili con cui l'uomo poteva riscaldarsi e cuocere il cibo. Al giorno d’oggi, invece, il carbone vegetale, noto anche come carbonella, è richiesto per alimentare i barbecue e i forni a legna delle pizzerie.
La necessità trasformare la legna in carbone vegetale e di reperire questo materiale, utile ai bisogni primari della vita, ha indotto l'uomo a praticare il mestiere del carbonaio. Questa figura, quasi scomparsa ai nostri giorni, era ben presente in Foresta Umbra ed è sopravvissuta fino all’avvento del gas da cucina negli anni 50-60.

Carbonai al lavoro in Foresta Umbra. Foto di Ena Servedio, autrice del libro
"Quando correvamo alla luna", Marsico Libri, 2016
L’arte del carbonaio consisteva nel tagliare legna nei boschi, trasportarla in spiazzi piani e aperti, accatastarla in carbonaie ed innescare il processo di combustione lenta che portava alla carbonizzazione, ossia alla trasformazione della legna in carbone.


Il carbonaio conduceva una vita alquanto difficile, Il suo lavoro, infatti, lo portava ad assentarsi dal paese per vari mesi, durante i quali egli, sfidando innumerevoli ostacoli e disagi, viveva nella foresta, al fine di accumulare la legna da cui ottenere poi il carbone.
Nella macchia, egli prediligeva tagliare alberi come il cerro, la quercia, il carpine, l'ornello e il leccio, in quanto l'esperienza insegnava che da essi si poteva ricavare un prodotto migliore, rispetto a quello fornito da legni come il salice e il pioppo. Queste piante, una volta gettate a terra per mezzo di seghe ed asce, venivano private dei piccoli rami. Dopo questa operazione, effettuata per mezzo di roncole, il carbonaio provvedeva a spezzettare il legname, che veniva poi accatastato.

Foto di Ena Servedio.

Successivamente egli, avvalendosi di muli, che erano particolarmente adatti a compiere i percorsi accidentati di montagna, oppure impiegando la "cavalla", un'asse di legno a forca con una tavola orizzontale appoggiata sulle spalle al convergere dei due rami, che gli permetteva di spostare circa mezzo quintale di legna, trasportava i tronchi fino alla cosiddetta "spiazza", uno slargo ricavato nella radura del bosco per mezzo di pale e di grosse zappe. In questo spazio, solitamente delimitato con una barriera di frasche e pali, affinché la ventilazione del luogo fosse il più possibile adeguata per la cotta della legna, prendeva forma la carbonaia.
Costruire una carbonaia richiedeva perizia, esperienza e tempo. Dopo aver calcolato, infatti, quale doveva essere la dimensione di questa struttura conica, il carbonaio aveva cura di creare al suo interno un camino.
Il camino veniva realizzato a partire dalla base fino all'apice, con dei legni incrociati a quadrato, ed era indispensabile per alimentare la fiamma. Attorno a questo foro, la legna veniva posizionata verticalmente in più strati e poi disposta in tanti cerchi, il cui diametro si riduceva man mano che si saliva verso la sommità. La catasta, così disposta, era ricoperta con terra battuta, polvere di carbone e zolle erbose.

Foto di Ena Servedio, tratta dal suo libro "Quando correvamo alla luna", Marsico Libri, 2016.

Questo accorgimento serviva a trattenere il fuoco all'interno della carbonaia, la quale solo allora poteva essere incendiata. Il carbonaio appiccava le fiamme per mezzo di legni resinosi e tizzoni ardenti, fatti scivolare lungo l'indotto del camino, il quale, dopo essere stato riempito di legni e frasche, veniva chiuso con le zolle di terra. Intorno al piede della catasta venivanolasciate delle fessure, che venivano regolate con cavicchi appuntiti di legno, al fine di non far spegnere il fuoco. Attraverso questo procedimento la legna bruciava senza fiamme, a temperature elevate, per alcuni giorni, sempre sotto l'occhio vigile del carbonaio che, scrutando vari particolari come il fumo, il trasudamento, il tiraggio, capiva quali accorgimenti adottare per portare a termine il suo lavoro.
Terminata la combustione, per la quale erano indispensabili circa dieci giorni, i tizzoni infuocati di carbone venivano fatti raffreddare. Solitamente cinque quintali di legna fruttavano mediamente cento chili di carbone.
Il carbone, dopo essere stato raccolto e sistemato in grossi sacchi, veniva caricato sui muli, muniti di basti. Queste erano selle grossolane, che permettevano di adattare i pesanti sacchi sul dorso dei muli. Il carbonaio, era così pronto ad abbandonare il suo rifugio, un capanno di legno, per fare finalmente ritorno al paese.

La capanna dei carbonai, non molto dissimile da quella ancora presente in Foresta Umbra per scopi didattici.
Foto di Ena Servedio.